Caregiver evoluti: quali competenze ... lasciare
10/01/2022
Social Unit News
La genitorialità è il modello culturale e psicologico al quale usualmente viene associato il lavoro di cura, assistenziale e/o sanitario.
Quasi come se vi fosse un'equivalenza tra curare bambini e curare un adulto colpito da tumore o un adulto anziano affetto da demenza.
Si tratta di un universo completamente differente ...
Si tratta di un universo completamente differente, che mutua alcuni contenuti dall'esperienza dell'allevamento della prole, soprattutto soluzioni pratiche o strumenti, ma che dal punto di vista culturale e relazionale si colloca in tutt'altra dimensione: per questo la formazione dedicata deve avere una sua specificità e aiutare a rielaborare l'esperienza.
Replicare il modello infatti porta con sé distorsioni e attivazioni di conflitti o regressioni, che spesso inficiano la relazione d'aiuto. Non si può negare che vi siano cure dell'infanzia che sono sane ispirazioni curative, come per esempio il gioco, la risata, il contenimento fisico o le coccole; tutti contenuti eccellenti che sono trasversali a tutte le età e in tutte le condizioni, anche nelle cure di fine vita.
Per trovare interessanti suggestioni a riguardo, Vi invito alla visione del film "Patch Adams" (1998) con Robin Williams o a leggere il libro "Salute! Curare la sofferenza con l'allegria e con l'amore" del Dr. Adams e Maureen Mylander.
Ma torniamo a quelle differenze che è bene tener presenti e che ci aiutano a focalizzare quando una relazione d'aiuto è sana o meno. Partiamo da un esempio.
Accompagnare ai primi passi un bambino di 10 mesi o ai primi passi dopo la riabilitazione un uomo con limitata capacità di deambulazione: magari usano ambedue un "girello", sia appoggiano ai mobili o al corrimano, vanno lentissimi rispetto al nostro passo. Siamo concentrati sul fatto che non debbano cadere e li reggiamo saldamente, ma mentre nel primo caso siamo inconsciamente certi che il bambino si rialzerà facilmente - dopotutto "i bambini sono fatti di gomma" e poi in fondo sarà presto autonomo - nel secondo caso siamo invece assaliti da pensieri nefasti, immaginiamo un femore rotto, interventi invasivi, un'ulteriore assistenza, il carico che dovremo portare... Panico! Diventiamo improvvisamente rigidi, ansioni, trasmettiamo insicurezza, anche attraverso il nostro campo relazionale, fatto di energie e linguaggio non verbale e paraverbale. Il nostro contributo all'autonomia e alla dignità della persona si riduce, spesso non in proporzione alla misura della reale non autosufficenza.
Nel primo caso inoltre si rassicura il bambino imitandolo, giocherellando e cambiando la nostra voce per farlo sentire come dentro ad un cartone animato. Nel secondo caso viene applicata la modalità infantile giocata con il bambino, ma applicata a adulti e adulti anziani: "Su dai che ce la facciamo" con voce stridula e lenta, come se non fossero capaci di comprendere il tono di accondiscendenza con il quale li trattiamo. L'uso delle frasi è standardizzato, si assiste ad un impoverimento del linguaggio e conseguentemente della potenzialità di espressione della persona.
Questo approccio produce l'infantilizzazione della persona che riceve le nostre cure, la sua perdita di dignità e inoltre consolida la sua percezione di perdita del senso di sé, accelerando una fase di regressione. Di contro accade che i genitori parlino con i figli, soprattutto tra i 3/6 anni, come se ne avessero 18/20!
L'infantilizzazione è una forma di discriminazione, spesso attuata attraverso un comportamento o un lessico che appunto esprime attributi infantili, che negano la maturità raggiunta con l'età o con l'esperienza. Parole come "carino", "piccolo" e "adorabile" vengono usate per esprimere gli attributi di un adulto anziano. Diminutivi o vezzeggiativi sono depotenzianti, soprattutto se continuativi durante l'assistenza o la frequentazione. L'eccesso opposto, l'adultizzazione, non rispetta i tempi di crescita e la relazione nella sua differenza di potere e possibilità di decisione.
Ulteriore danno ricade sul/la caregiver: ne sono un esempio le assistenti familiari (comunemente dette badanti o le baby sitter) o i/le familiari che sono al fronte della cura in modo continuativo. Loro stessi/e perdono la dimensione di un linguaggio appropriato, paritario, basato dignità reciproca,influenzando i percorsi terapeutici e la progressione o regressione di coloro dei/delle quali si prendono cura, nonchè la propriocezione e l'integrità psicologica. L'uso del linguaggio appropriato è un fondamento di un SANO lavoro di cura. Quindi non parliamo di accudimento nel caso degli adulti, in quanto non sono bambini.
Inoltre i bambini stessi puntano a crescere e le tappe sono appunto evolutive, arriva un giorno in cui ci sentiamo dire: "Piantala di trattarmi così, non sono più un bambino!"... non sorprendiamoci se la voce in questione appartenga a un quattordicenne o a un ottantenne: "Piantala di trattarmi così, sono tuo padre!". Anzi, se arriva da quest'ultimo prendiamolo con un segnale molto positivo e come un feedback verso il nostro comportamento, quindi rivediamo le nostre modalità e rialineamoci all'adultità reciproca. Spesso, davanti a queste affermazioni, mi viene replicato che nel caso di persone colpite da demenza o con patologia psichiatrica o con comprissioni molto gravi, questo ha un valore relativo. Posso solo rispondere con una domanda: "A chi è utile che lui o lei siano trattati come bambini?".
Una domanda cruda per una risposta autentica: a chi non è in grado di gestire la situazione e chi ha "paura" della malattia, quindi prendiamo il limite e trasformiamolo in opportunità.
In sintesi, per poter acquisire competenze di una cura evoluta ed evolutiva dobbiamo lasciar andare il modello accuditivo tout court e integrarlo con la dimensione identitaria della persona che al centro delle nostre cure, di riflesso la nostra.
Cristina Cortesi
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